Ma questa storia dell’Amorevolezza con se stessi?
Gli Americani la chiamano Self Compassion. Sostengono che sia la chiave per stare bene.
Io non capivo. Il nome in italiano mi sembrava già un po’ da “perdenti”. Compassione di sé, gentilezza amorevole, perdono, vogliamoci bene… Tutte parole che alzano il glucosio nel sangue, fanno venire il diabete e che, fino a 10 anni fa, suscitavano in me re-azioni che spaziavano tra la banalizzazione del modello e il rifiuto di approfondirlo.
Oggi invece la TFC (Compassion Focused Therapy) di Gilbert è uno degli approcci più innovativi, validati dalla ricerca scientifica, che sembra essere molto efficace nell’ incrementare il benessere e promuovere il cambiamento. La Dott.ssa Kristin Neff, docente all’ Università di Austin (Texas) spiega come “il trucco” sia cambiare l’atteggiamento che adotti verso te stesso nei momenti di difficoltà: potresti iniziare a comportarti con la gentilezza, la cura e la solidarietà che useresti con un caro amico.
Già, un caro amico… Lo stesso che mi è capitato di incontrare in questi giorni. Una persona a cui voglio bene e che sta passando un momento difficile.
Quando comincia a raccontarmi con le parole la sua sofferenza mi accorgo che già l’avevo percepita. E’ lì da quando ho varcato la soglia di casa sua. Palpabile, inequivocabile. L’ascolto del suo dolore è la priorità: attivo, non giudicante, consapevole. Sento il mio corpo che si scalda, il cuore che inizia a battere più forte e i miei occhi che diventano lucidi (è si, anche noi psicologi ci commuoviamo).
I miei gesti sono lenti, aperti…Il tono della mia voce è calmo, dolce. Il mio viso assume naturalmente un’espressione del volto gentile, senza spigoli…Ogni mia preoccupazione personale scompare.I miei occhi si posano su di te. Ci sei tu ora. Io sono con te. Ti voglio bene…
Eccolo il miracolo, quello che riusciamo a fare con i nostri più cari amici ma che difficilmente riusciamo a fare con noi stessi quando le cose si mettono male.
Gli ingredienti per provarci sono 3: LA CONSAPEVOLEZZA, per accettare la sofferenza senza negarla né ingigantirla; IL SENSO DI CONDIVISIONE, cioè ricordarsi che tutti sbagliano, evitando vergogna e isolamento, e la COMPRENSIONE, confortare senza giudicare. Questi sono sentimenti che conosciamo bene, ma che spesso dimentichiamo di usare con noi stessi.
Per quale motivo? La prima ragione potrebbe essere culturale. In una società frenetica e competitiva come quella occidentale, siamo spinti ad emergere e a vincere ad ogni costo; non accettiamo di fallire e ci flagelliamo con l’autocritica. C’è poi una una radice biologica, legata alla sopravvivenza. Il nostro cervello è programmato sulla difensiva, pronto a reagire ad ogni minaccia, come faceva millenni fa con le tigri dai denti a sciabola; quando sbagliamo, identifichiamo il nemico in noi stessi e il cervello attacca.
Molti credono che essere compassionevoli voglia dire autocommiserarsi o concedersi “troppo”. Ma è il contrario: prendersi cura di una persona significa pensare al suo bene, dunque stimolarla a non lasciarsi andare e evitare gli eccessi. Pensiamo ad un atleta in campo: quando il pubblico lo incoraggia, sarà spinto a dare il meglio, mentre se si sente fischiare contro, rischia di bloccarsi. Lo stesso succede quando sei in crisi: se la tua voce interiore smette di ripetere : “vergogna” o “hai fallito”, e ti sostiene, sarai più forte e reattivo.
Vuoi provare? Quando ti trovi in difficoltà, ascolta cosa dice la vocina nella tua testa e scrivilo. Poi immagina che un’amico sia nella tua stessa situazione: cosa gli diresti? La differenza ti colpirà…
Amico Mio, straccia le prime frasi…Non le meriti davvero